La storia di Mia

Di solito non ho molta memoria, ma di quel periodo ricordo tutto, con dovizia di particolari; ricordo voci, volti e odori.
Ricordo come ero vestita il giorno della  visita morfologica; ero seduta su una sedia di plastica arancione aspettando di entrare, e indossavo un vestito marrone di tessuto morbido che avvolgeva la mia pancia come una coperta calda. 

Parlavo di  programmi televisivi e sgranocchiavo biscotti. Ricordo di aver visto entrare nella stanza un dottore che zoppicava e subito dopo affacciandosi alla porta mi aveva chiamato. Poi la memoria si fa liquida e dai contorni frastagliati e il mio pensiero si è fermato su un minuscolo polmone, su una porta che si apriva e su un' altra che si chiudeva, su una donna che entrava, sulla bocca del dottore che balbettava. Mi diceva che c'era qualcosa che non andava, ma che lui non aveva mai visto niente del genere. Era un ospedale di provincia, in quel posto non ci sono più tornata.

Mi sono sdraiata sul lato sinistro del lettino, mi girava la testa e avevo nausea, e lui mi diceva che non si faceva la morfologica solo per sapere se era maschio o femmina. Mi parla di aborto terapeutico, forse, ma non lo sa. Le sue parole suonavano come un rimprovero. Esco dalla stanza, faccio le scale, prendo il telefono, mi fischiano le orecchie, piango io, piange il mio compagno, mi gira ancora la testa.  

Lei la sentivo già muovere da un paio di settimane, movimenti sordidi e leggeri, ma c'era ed era già Lei.
Vengo traghettata come anima persa del limbo in un ospedale di terzo livello nella città grande, quella che fa provincia; una struttura fatta di padiglioni grandi come paesi, isolati dal resto del mondo ma collegati tra loro da corridoi sotteranei  poco illuminati. Ogni quindici giorni mi presento per le  ecografie e in quel posto non mi parlano più di aborto terapeutico ma di adenomatoide cistica polmonare, bolle piccole, bolle medie, cuore destraposto, ecocardiogramma fetale, intervento chirurgico. 

Di tutta la gravidanza ricordo i viaggi in macchina, il sole, la pioggia, la neve, le attese, donne preoccupate, i silenzi, i distributori di cioccolata calda, i mancamenti, i sospiri dopo ogni visita. In quell'ospedale è nata ma non è stata operata. Ci siamo spostati in un'altra regione, in un'altra città; a Firenze al Meyer. Persone calde e accoglienti, sguardi liquidi  e pieni di umanità; in quel posto io e Lei ci sentivamo al sicuro. Una mattina di settembre quando ancora la temperatura era mite e ci si vestiva di leggero, ci siamo svegliate e siamo scese al piano di sotto, dove c'erano le sale operatorie. Abbiamo conosciuto un bambino con occhi rotondi e neri e poi è arrivata una dottoressa che le ha teso le braccia togliendola dalle mie. Sono tornata in camera, mi sono lavata la faccia, mi sono guardata allo specchio, mi sono alzata e seduta dieci volte sul bordo del letto, mi sono chiesta dov'ero, ho bevuto dell'acqua e ho pianto di nuovo, di nuovo con rabbia e con un senso di smarrimento. 

Sono passate quattro ore, non ricordo come sono passate, se mi sforzo mi sento invasa dalla paura e da un gusto amaro in bocca. Sono passati cinque giorni, dal lunedi' al venerdi, e siamo uscite dall'ospedale. Ancora adesso mentre dorme la guardo, respiro il suo respiro; una sensazione di apprensione mischiata a stupore, la stessa che provavo quando era appena nata e la vedevo crescere e la vedevo bella e sana e sognavo un uomo alto con un camice che odorava di pulito che mi batteva la mano su una spalla e  mi diceva che si erano sbagliati. 

Pensavo che non avrei mai trovato la forza e la lucidità per affrontare tutto quello che ci aspettava. Ma poi la forza è arrivata, dirompente come acqua che rompe gli argini, una forza atavica e riparatrice che ti fa stare sveglia anche se passi notti insonni, che ti fa cullare tua figlia per ore senza sentire le braccia indolenzite, che ti fa digiunare senza sentire allo stomaco il morso della fame. 

Lei si chiama Mia, ha due anni e ama il mare, appena arriva si toglie le scarpe e batte i piedi sulla sabbia, e ride. Io la guardo con aria trasognata, con quell'espressione di chi è ancora incredulo ma allo stesso tempo posseduto da una felicità totalizzante. Quel vestito marrone l'ho buttato via.